Se la reputazione in azienda è anche questione di tasse

da | Dic 14, 2017 | Digital, Formazione, Reputazione aziendale

La reputazione aziendale è oggi la nuova frontiera, soprattutto per chi si scommette in un mercato globale. Gli aspetti che concorrono a formarla non sono (più) solo quelli legati alle performance, ma soprattutto ai codici etici e alla vision aziendale. Come ci suggerisce l’ultima decisione di Facebook in merito alle questioni fiscali.

 

Ci aveva provato (senza troppo successo) l’allora Ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa a convincere privati cittadini e imprese: ”Pagare le tasse è bellissimo”; oggi il titolo a quattro colonne de Il Sole 24 Ore “Svolta di Facebook sulle tasse” mi ha fatto pensare a quel tentativo rudimentale e poetico (apparso palesemente fiacco nel 2007)  e alla capacità comunicativa che un grande colosso come il social network di Zuckerberg riesce a mettere in piedi per sfruttare a suo vantaggio condizioni poco favorevoli. Del dibattito tra i big del web e i Governi si è scritto molto negli ultimi mesi, come del rapporto tra le piattaforme di diffusione (Google e Facebook in testa) e gli editori. Il tentativo di resistere alle pressioni del mercato in un braccio di ferro scomodo (e inutile) è stato ampiamente superato; l’annuncio di Dave Wehner, Chief Financial Officer di Facebook, che saranno aperte delle strutture locali dedicate alle vendite, in modo che ciascun Paese potrà fatturare i ricavi prodotti sul proprio territorio, sancisce un cambiamento di rotta importante.

Non è solo la sfera economica ad esserne investita; il cambiamento più importante, anzi, è da ricercarsi nei motivi e nei modelli che hanno spinto un’azienda globale come Facebook a decidere di aprire fronti locali. Dal “territorio” passa il coinvolgimento e anche il riconoscimento del valore delle comunità locali anche per un’azienda internazionale come il gigante blu, a tal punto che l’innovazione del modello economico è proprio affidata ad una mossa anti-globalizzazione. Sembra un’inversione di tendenza quasi parossistica, se non si tenesse conto delle ricadute in termini di reputazione.

Anticipare (o assecondare prontamente, in questo caso) le spinte delle istituzioni, che a breve vareranno comunque una web tax, vuol dire posizionarsi come un’azienda dall’impronta giovane, agile, capace di percepire le evoluzioni del mercato e organizzarsi di conseguenza; rivoluzionare il proprio modello di business, in questo caso, vuol dire esplicitare la necessità di sentire il territorio non solo come un fronte da cui attingere, ma anche a cui contribuire. Il cambiamento è davvero epocale: non sono più (solo) le scelte economiche aziendali a dettare la direzione, ma questa va costruita secondo le spinte reputazionali del mercato: perché la reputazione è, oggi più che mai, un requisito che determina l’economia delle aziende.

“Ogni Paese è unico e vogliamo essere sicuri di realizzare questo cambiamento in modo corretto” ha detto Wehner. Magari in modo meno esplicito ed entusiasta di Padoa Schioppa, ma anche Fb pensa che è bello (e serve alla reputazione) pagare le tasse.

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